La lunga stagione della personalizzazione della politica, nata dalla frattura sociale apertasi con Tangentopoli, e quella della iper-leaderizzazione nella quale oggi tutti siamo immersi, coincisa con il dominio delle piattaforme social e della Rete, ci ha regalato l’illusione che il leader di turno potesse essere la soluzione ideale contro la degenerazione dei partiti, la soluzione di tutti i nostri problemi.
Solo il leader, l’uomo solo al comando affrancatosi dalla mediazione di una classe dirigente che spesso ne zavorrava solo le scelte, poteva finalmente restituire ai cittadini le chiavi delle istituzioni.
Il decisionismo a prescindere dagli effetti che le singole scelte poi generavano, ha rappresentato per alcuni decenni l’ideologia politico-culturale imperante, spingendo ai margini del dibattito pubblico una banale considerazione: ogni leader senza una diffusa classe dirigente a supporto, necessaria anche a nutrirne un fisiologico ricambio, è destinato a perdere la propria capacità aggregativa.
Nel Mezzogiorno la stagione dei sindaci carismatici è da tempo in archivio e quella dei presidenti di Regione, con buona pace di Vincenzo De Luca e Michele Emiliano, non è riuscita a incidere in modo preponderante e consistente sulle scelte strategiche del governo centrale, così a qualche mese dalle elezioni politiche che ci consegneranno un Parlamento numericamente molto più debole, il Meridione rischia per la prima volta dopo la fine del vituperato pentapartito e di qualche altra esperienza recente, di contare poco o nulla.
Abbiamo di fronte inutile negarlo, un deficit non solo numerico di classe dirigente e di leadership capaci di intestarsi e guidare, come nel passato, la battaglia di meridionalismo virtuoso, quello che ha rinunciato all’assistenzialismo e al parassitismo, non foss’altro perché le risorse oggi sono limitate, che al contrario è fatto da amministratori capaci, da imprenditori innovativi e principalmente da cittadini che hanno sostituto alla rassegnazione un impegno civico nelle comunità.
A guardare oltre l’orizzonte del quotidiano, più di un Luigi Di Maio la cui mutazione e maturazione politica è ancora in corso, in Campania ci sono due esponenti politici che presentano una serie di condizioni che li mette in una posizione privilegiata, sempre che la vogliano cogliere.
Due leadership, affatto populiste o concorrenziali, che potrebbero sbocciare nei prossimi mesi: da un lato, Mara Carfagna, attuale ministro per il Sud e la coesione territoriale, e dall’altro Gaetano Manfredi, sindaco di Napoli, la più grande città del Mezzogiorno.
Mara e Gaetano, infatti, hanno un cursus honorem che, per quanto differente, ha consentito a entrambi di costruire relazioni radicate, di vivere esperienze istituzionali decisive e di consolidare nei rispettivi percorsi politici e professionali la giusta credibilità e quella quota di reputazione personale necessaria per rivendicare un ruolo di leader che valichi i confini degli attuali ruoli.
Certo, sull’altro piatto della bilancia ci sono, al momento, anche delle criticità che rendono questo percorso tutt’altro che scontato, a cominciare da un radicamento territoriale ancora fragile, dall’assenza di un partito o di una classe dirigente pronti a sostenerli e legittimarli e, in ultimo, di una velata diffidenza caratteriale a indossare le vesti di condottieri senza timori e resistenze. Eppure, sia Mara Carfagna che Gaetano Manfredi proprio di recente hanno avuto modo di dare un assaggio di questa predisposizione a ritagliarsi il ruolo di leader andando, più o meno apertamente, a scontrarsi con Vincenzo De Luca, padre e padrone incontrastato della scena politica meridionale.
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